2012, la guerra che verrà

2012, la guerra che verrà  - foto di Ammar Abd Rabbo (da Flickr) (immagini di Carlo Ruggiero)

Foreign Policy chiede a International Crisis Group di stilare la lista dei conflitti a rischio di deterioramento durante il nuovo anno. Ecco la mappa delle guerre che verranno. Dalla Siria, al Pakistan, da Israele al Congo

di Carlo Ruggiero

Nuovi venti di guerra soffiano sul Golfo Persico. Le portaerei americane restano in attesa, mentre Teheran, con l’inizio dell’impoverimento dell’uranio, dà il via alla sua era nucleare. La tensione tra Iran e Stati Uniti sembra dunque pronta a degenerare in un conflitto da un momento all’altro. Ma, in questo inizio 2012, quello sullo stretto di Hormuz non è il solo fronte caldo del pianeta. Anche per questo il famoso bimestrale americano “Foreign Policy” ha chiesto all’altrettanto nota organizzazione non governativa “International Crisis Group” di valutare quali siano le dieci aree di crisi a maggiore rischio guerra nel 2012.

E il responso in alcuni casi appare sorprendente.
La Ong lascia consapevolmente fuori dalla lista situazioni di stallo come quelle della penisola coreana dopo la morte dei Kim Jong Sun e del Nord Nigeria, ma accanto ad aree notoriamente calde come Iran, Afghanistan, Pakistan e Centro Africa, e ai conflitti dimenticati in Europa, come quello nel Caucaso settentrionale, spuntano paesi fino a qualche mese fa considerati relativamente tranquilli come il Venezuela. Mentre la primavera araba continua a tenere il mondo con il fiato sospeso, a causa dei traballanti equilibri politici in Tunisia, Yemen e Siria.

Per quanto riguarda l’Iran, è soprattutto il rapporto con Israele a preoccupare l’International Crisis Group. Sulla questione nucleare i contrasti tra i due paesi sembrano ormai fuori controllo. E poi ci sono due fattori che rendono il 2012 un possibile punto di svolta verso il peggio: i passi da gigante del regime di Teheran verso la costruzione dell’atomica, e le elezioni americane, che potrebbero incrementare indirettamente il sostegno statunitense a Tel Aviv e dare dunque origine a un ambiente favorevole per un’azione militare israeliana. La situazione resta critica anche in Afghanistan, dove un decennio di assistenza da parte della comunità internazionale non è riuscito a creare un regime saldo e ad evitare una presenza crescente degli insorti nel tessuto sociale del paese. Situazione instabile anche in Pakistan, le cui relazioni con gli Stati Uniti degenerano a vista d’occhio, mentre il processo di ricucitura dei rapporti con l’India rimane ostaggio dei gruppi militanti come il Jamaat-ud-Dawa, e il Lashkar-Tayyeba, responsabile degli attacchi di Mumbai del 2008. Un altro attacco terroristico potrebbe facilmente tradursi in vera e propria guerra tra i due avversari dotati di armi nucleari.

La primavera araba ha inoltre rimescolato molte altre carte sullo scacchiere internazionale. Secondo l’International Crisis Group, in Tunisia, la vittoria del partito islamico moderato An-Nahda è stata una ventata di democrazia, ma non si può sottovalutare il fatto che le fazioni più radicali restano emarginate dalla vita politica e che i crescenti contrasti sociali all’interno del paese potrebbero esplodere da un momento all’altro. In Siria, invece, lo stallo sanguinoso in cui si trova il regime potrebbe portare, una volta caduto Bashar al-Assad, a violente rappresaglie. Mentre anche lo Yemen si trova ad un bivio importante tra il collasso violento del sistema politico attuale e la flebile speranza di un trasferimento pacifico del potere. Sotto la pressione crescente da parte di attori internazionali e regionali, il presidente Abdullah Saleh il 23 novembre scorso ha finalmente firmato un accordo di transizione e sta per uscire ufficialmente di scena. Quello che emergerà dalle urne del 23 febbraio, però, è tutto da scoprire.

Anche l’Africa centrale è sull’orlo del precipizio. In Burundi, le assicuranti dichiarazioni da parte del governo di Bujumbura suonano stonate nel pieno di un’escalation di violenza e di insicurezza. I contenuti del trattato di pace recentemente firmato con l’opposizione sono stati smantellati uno per uno. La lotta tra i ribelli e il partito al governo, insieme all’intensificarsi della repressione, sta lasciando sempre più vittime sul campo da due anni a questa parte. I media indipendenti sono perseguitati dalle autorità, che sono anche i presunti mandanti di molti omicidi mirati. Allo stesso tempo, la corruzione è in crescita, e le condizioni di vita si deteriorano a causa dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Forse peggio sta messo il Congo, dove Kabila è stato rieletto presidente e si è ufficialmente insediato, ma il voto è stato gravemente viziato da brogli, intimidazioni e violenze. I sostenitori del candidato dell’opposizione Etienne Tshisekedi sono sul piede di guerra, pronti ad imbracciare le armi e scendere in strada. La crisi tra Kenia e Somalia, poi resta ad altissima tensione. E’ ancora troppo presto per capire se la campagna militare che ha recentemente lanciato il Kenia nel sud della Somalia riuscirà a sconfiggere al-Shabaab, il gruppo militante islamico che si è formato durante la frammentazione delle Corti Islamiche e che controllano la maggior parte meridione del paese. Ora il Kenya entrerà a far parte della missione dell’Unione africana, ma una presenza prolungata in Somalia potrebbe essere molto impopolare, quindi i rischi per la stabilità interna del Kenya restano concreti.

Vacilla anche la solidità degli equilibri politici in Asia Centrale. Diversi stati nella regione sono vicini al tracollo. I regimi di Tagikistan e Kirghizistan, divorati dalla corruzione e da servizi pubblici quasi inesistenti, sono minacciati da insurrezioni sia locali che esterne. Per quanto riguarda il Tagikistan, poi, i rapporti con l’Uzbekistan sono vicini al minimo storico, a causa della lunga disputa sull’acqua a delle rappresaglie sui confini. Basta una scintilla e la polveriera dal Caucaso del Nord può esplodere.

E poi c’è il Venezuela. Secondo la Ong nel paese sudamericano il tasso di omicidi sarebbe tra i più alti dell’emisfero. I segnali in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno sono inquietanti. Il governo stesso ha armato le milizie locali civili, per “difendere la rivoluzione”. Ma finora Chávez non è riuscito a combattere la corruzione all’interno delle forze di sicurezza, le armi sono facilmente disponibili e l’impunità resta una delle principali cause della violenza. Non è ancora chiaro chi sfiderà Chávez alle presidenziali, ma i problemi di salute del presidente aumentano notevolmente l’incertezza.

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