Il 5 aprile 1992 i cecchini serbi esplodevano i primi colpi sulla città martire. L’assedio durerà tre anni con 11mila morti. Viaggio tra i giovani di Sarajevo, stretti tra un passato di morte e un futuro sempre più incerto
di Carlo Ruggiero
Sandro è nato a Sarajevo 35 anni fa. Ha una bella faccia sveglia, mani grandi, e fa il cuoco in un ristorante italiano a Baščaršija, il cuore turistico e culturale della città . E’ un gran tifoso dello Fc Željezničar. Ogni domenica si mette la sciarpa bianca e blu e va al Kosevo stadium per seguire le partite dei suoi campioni. Al ritorno, di solito, si ferma in un bar molto affollato, a metà strada tra la sinagoga e la moschea principale, e ascolta un po’ di musica.
Ama gli Skroz, un gruppo rock-melodico bosniaco, ma inspiegabilmente conosce a memoria tutte le canzoni di Mango. “La tua lingua l’ho imparata insieme al tedesco, a Mönchengladbach. Ho vissuto là per 18 anni, in un quartiere pieno di italiani. I miei vicini erano tutti siciliani e il mio migliore amico ascoltava sempre Mango. Mi piace tantissimo. E’ per quello che conosco anche la vostra cucina “, dice come se fosse la cosa più naturale del mondo.
In Germania Sandro c’è andato a 15 anni, da rifugiato politico. Però il 5 aprile del 1992, quando i primi colpi di mortaio serbi cominciarono a cadere su Sarajevo, era qui, per strada. Quel giorno c’era una manifestazione contro la guerra. “Io c’ero andato insieme a mia madre – racconta – quando i cecchini cominciarono a sparare ci fu una gran confusione, tutti scappavano in ogni direzione e gridavano come pazzi. Mentre attraversavo la piazza di corsa ho visto di sfuggita il sangue. Qualcuno era rimasto a terra”. Forse erano i corpi di Suada Dilberović e Olga Sučić, le prime due cadute dell’assedio di Sarajevo. In quello stesso 5 aprile, i paramilitari serbi bombardarono anche l’Accademia di Polizia, posizione di comando strategica a Vraca, nella parte alta della città. La guerra in questa conca durò 1.425 giorni, facendo 11.541 morti.
“Ci sembrava impossibile. Era già più di qualche giorno che vedevamo i carri armati e i soldati che si appostavano sui monti che circondano la città. Però ci sembrava solo un gioco. Noi ragazzi salivamo sulle colline per guardarli meglio, e scherzavamo sul rumore che potevano fare. Quella mattina, però, c’era un’atmosfera strana in città. C’era troppo silenzio e non sui vedeva nemmeno un animale in giro. Anche la fontana Sebilj’, che di solito è stracolma di piccioni, quel giorno era vuota”. Quando racconta questa storia Sandro smette di sorridere.
Però ha voglia di raccontarla, come hanno voglia di parlare del passato quasi tutti i ragazzi di Sarajevo. Perché quel 5 aprile è il giorno che ha spezzato le loro vite a metà. Che ha diviso il prima dal dopo in maniera chiara, con un segno rosso sangue, indelebile. Sono queste le vere cicatrici che l’assedio ha lasciato sulla pelle di Sarajevo. Certo ci sono anche le tacche dei proiettili sui muri, gli edifici ancora pericolanti e i buchi che i colpi di mortaio hanno lasciato sul selciato. Alcuni li hanno dipinti di rosso, solo quelli dove qualcuno c’è morto però. Le chiamano le “Rose di Sarajevo” e sono anche sulle guide turistiche. Ma le tracce più profonde sono quelle lasciate nelle vite di questi ragazzi.
“Io volevo combattere, difendere la mia città. Ma ero solo un ragazzino e mia madre mi ha costretto a scappare. Così siamo riusciti ad andare in Germania. Sono ritornato solo un anno fa. Qualcuno che conoscevo e che è rimasto ancora mi chiama traditore, o coniglio. Però io volevo rimanere. Non sono scappato”. E lo dice con la rabbia nel cuore e le labbra che gli tremano, come a volersi scusare anche con me. Sandro ha pure avuto problemi di droga, ma ne è uscito. Grazie alla fede, dice lui. E’ cattolico e non fa nulla per nasconderlo. Ha un cristo tatuato sul braccio destro e una madonna sulla scapola sinistra. Il suo migliore amico, però, è Mustafà, musulmano non praticante, che va a vedere la partita dello Željezničar con lui e poi bevono insieme più di qualche birra.
Nonostante ciò, vent’anni dopo quel maledetto 5 aprile, i ragazzi di Sarajevo vivono ancora stretti a quel passato. Lo leggi nei loro occhi, e nel modo in cui ricordano quei giorni. Ma anche nel fatto che tutti conoscono alla perfezione l’etnia, la religione e la storia di chi incontrano per strada. Molto spesso, poi, i musulmani frequentano solo musulmani, i croati solo i croati, i cattolici solo i cattolici. L’amicizia di Sandro e Mustafà è una bella eccezione. D’altronde Sarajevo è la capitale, le menti sono più aperte alle novità da queste parti.
Eppure basta allontanarsi di qualche chilometro dai confini cittadini che un’amicizia come questa diventa impossibile. Intorno c’è una Bosnia incapace di voltare pagina da quegli accordi di pace di Dayton del 1995, con cui il Paese venne diviso in due entità etniche, la serba Repubblica Srpska e la Federazione croato-musulmana, collegata da deboli istituzioni centrali. Quelle istituzioni che Ue e Nato vorrebbero rafforzate a scapito dei ‘potentati’ etnici. In direzione opposta, va invece letta la crisi politica che ha visto la Bosnia, per ben 16 mesi, senza un governo centrale, a causa dell’assenza di un accordo tra le comunità etniche.
Calato il sipario sulle commemorazioni in programma in questi giorni a Sarajevo, resterà una Bosnia divisa e in ginocchio. Uno tra i Paesi più poveri d’Europa e tra i più lontani dall’Unione europea. “Ho anche il passaporto croato – confessa Sandro -. Quando la Croazia entrerà in Europa, io me ne potrei andare. Però non lo so se lo farò davvero. Vorrei fare qualcosa qui, non voglio scappare di nuovo”. La guerra di Sandro con il suo passato non è ancora finita.
» FOTOREPORTAGE, M. Di Giovanni